Concretamente Sassuolo, 18 maggio 2015
Una grande povertà dei nostri teatri lirici risiede nel fatto che, a fronte di centinaia di Amleto della scena di ogni tempo, ci sia una e sempre una sola Norma sul palco a cantare. Mi riferisco alla concezione dello spettacolo operistico come oggetto intangibile nella sua integrità: vicende rigide ambientabili in epoche più o meno remote e plausibili, su scenografie astratte, simboliche o iperrealiste (ma soprattutto manieriste) – variando, a ben vedere, solo le sfumature. Rimane una distanza tra l’opus e l’epos che rischia di allontanare il melodramma dal teatro, rendendolo sempre più un prezioso ninnolo inoffensivo, reperto storico di indubbio valore da conservare, come si conviene ai musei periferici, con tutti i fasti della polvere.
Forse è mancata la forza di un interprete unico, come è invece avvenuto nel teatro novecentesco rivoluzionato dall’attore, in un contesto dove per lo più il cantante lirico si occupa solo di note e il duopolio direttore d’orchestra – regista di tutto il resto e non sempre in simbiosi (premesse per una schizofrenia raggelante). Senza affrontare la spinosa questione delle logiche produttive del teatro operistico, la drammaturgia nell’opera lirica rischia di essere confinata ai margini, in ossequio a librettisti e compositori. E dire che, se proprio nell’ambito del teatro musicale si era ipotizzata l’opera d’arte totale, aspettiamo da tempo un Grotowski del melodramma.
Questo prologo sulle troppe occasioni mancate della regia d’opera lirica è utile a motivare l’entusiasmo per un’operazione così semplice quanto necessaria come quella svolta da Nanni Garella con la sua “Traviata, ovvero La signora delle camelie”, una prima assoluta in scena all’Arena del Sole di Bologna dal 13 al 31 maggio. Coniugare lirica e prosa, rivendicando la possibilità di intervenire sulla partitura d’opera, è una sfida pienamente vinta da Garella con la sua versione dell’“opera in due atti e quattro quadri”. “La signora delle camelie” di A. Dumas e “La traviata” di G. Verdi si fondono, grazie alla collaborazione tra due fondazioni, ERT e il Teatro Comunale di Bologna.
Vengono innestati sulla base del romanzo-dramma di Dumas i brani musicali verdiani nei corrispondenti momenti scenici, senza preoccuparsi dei vuoti, delle cesure (eliminando anche brani corali famosi quanto drammaturgicamente secondari) o delle ripetizioni (come il preludio all’ultimo atto). Claudio Scannavini ci consegna un adattamento musicale nel segno della trasparenza, della misura e dell’intimità, nel nome, dice Scannavini stesso, del più importante detrattore di Verdi, Brahms, e delle sue sonorità cameristiche. Diretta da Massimiliano Carraro, l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna ridotta ai suoi minimi termini (una scarsa ventina di musicisti) dimostra come si possa agevolmente ridurre l’organico dell’allestimento (che vuol dire, non nascondiamocelo, ridimensionare anche lo sforzo produttivo) senza intaccarne la bellezza, grazie a una scena (di Antonio Fiorentino) essenziale e funzionale allo spettacolo, così come i costumi ottocenteschi di Claudia Pernigotti.
Giovani cantanti lirici sono stati coinvolti in un progetto di formazione sul doppio binario dell’interpretazione canora e di quella scenica. Se la parte musicale è sempre eccellente per tutti gli interpreti, emergono per la recitazione tutte le difficoltà dell’impresa, a tratti condizionata da una dizione e una gestualità un po’ manierati, ma lo sforzo di svincolarsi da un pesante bagaglio retorico è già un primo passo significativo. A sostenere al meglio questo nuovo equilibrio necessario tra le arti è Marianna Mennitti come Violetta, sostenuta da Néstor Losán (Alfredo), Michele Patti (Germont padre) e da Nicolò Donini, Giovanni Maria Palmia e Luciana Pansa nei ruoli secondari e in sostituzione del coro. Indispensabili anche i due ruoli non cantati, Umberto Bortolani (il Dottor Grenvil, narratore in prima persona), e Marina Pitta, nel ruolo di Annina, la cameriera di Violetta, personaggio ingiustamente ritenuto marginale cui viene dato nel finale il risalto di una mater dolorosa.
Garella riesce da un lato a semplificare l’opera senza svilirla, avvicinandola alla comprensione del pubblico dei non addetti ai lavori; dall’altro abbiamo l’amplificazione delle emozioni, grazie alla possibilità di cambiare la punteggiatura del testo, creando silenzio e vuoto dove la partitura, concepita come un unicum continuo e ininterrotto, non lo ammetterebbe – ed è il vuoto che permette l’eco e la risonanza. Non siamo di fronte soltanto a un curioso esperimento didattico che colloca il genere ottocentesco in secoli diversi, tra musical e Singspiel, ma a una vera e propria ricerca di senso nell’opera: facendosi largo tra filologia e concertismo pragmatico, torna l’ermeneutica sul palco d’opera. C’è da chiedersi se una simile operazione sarebbe stata possibile con drammi meno noti, per musica e trama, o se il lavoro sia stato agevolato dall’avere alle spalle di Verdi un autore di spessore come Dumas. Resta la bella prospettiva indicata da questa Traviata, capace di suggerire che siamo ormai prossimi a tempi in cui entrare al Comunale o all’Arena possa riservare identiche sorprese.
Stefano Serri
Ragionar cantando: la “Traviata” di Garella all’Arena del Sole